Se il successo di un pittore moderno si misura inevitabilmente anche dalla quotazione delle sue opere possiamo dire che nel 2016 Jean-Michel Basquiat ha raggiunto, post mortem, l’obiettivo che si era prefissato fin dalla tenera età: diventare una star.
Appena l’anno scorso, infatti, un suo quadro senza titolo del 1982 è stato battuto da Christie’s per la cifra di 57,3 milioni di dollari. Un tale exploit economico trascende naturalmente dal mero valore artistico andando a toccare in gran parte le corde di una biografia maledetta e del conseguente divismo dei morti giovani. Solo che nel caso di Basquiat, una volta ripulita la sua immagine dall’ambizione mondana e dalle polemiche pop (il legame con Andy Wahrol gli procurò l’accusa di esserne il suo mediocre cagnolino) che l’accompagnarono in vita, si può, a quasi 30 anni dalla sua scomparsa, cercare di imbastire un discorso più accademico sul suo lascito culturale.
Prova a farlo con lodevole impegno la mostra Jean-Michel Basquiat. New York City che, promossa dall’Assessorato alla Crescita Culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e curata da Gianni Mercurio in collaborazione con Mirella Panepinto, resterà aperta a Roma fino al 30 luglio nella splendida cornice del Chiostro del Bramante. Circa cento i lavori esposti, realizzati tra il 1981 e il 1987 e tutti provenienti dalla Mugrabi Collection, una delle raccolte di arte contemporanea più vaste al mondo. Oli, ceramiche, serigrafie, disegni, perfino dipinti su tela o materiali di recupero come tavole di legno e metallo mostrano l’incessante attività di ricerca e sperimentazione del più famoso artista afroamericano moderno.
Il percorso segue un euclideo ordine cronologico che, per un’artista morto a soli 28 anni per un’overdose di eroina, è la scelta più appropriata. Sebbene il substrato della sua arte rimanga sostanzialmente lo stesso nel corso della sua carriera, è interessante notare come ai suoi esordi l’esperienza da writer svolta nell’adolescenza sia subito quasi del tutto rielaborata nonostante la vicinanza temporale. In The Field Next to the Other Road è già marcata, ad esempio, l’ispirazione del neoespressionismo che si serve sì della bomboletta spray e del tratto stilizzato tipico dei graffitari ma vuole giungere ad esiti altri giustapponendo gli echi biblici del soggetto.
L’importanza via via crescente che la scrittura verrà ad esercitare nella sua opera è già ravvisabile nel bellissimo acrilico e stick a olio su tela Bracco di Ferro dove all’accostamento violento di giallo e nero fa da contrappunto l’altrettanto forte parcellizzazione dell’anatomia umana, rimarcata a sua volta da una specie di tag, “boneless”.
Altro elemento fondamentale che marcava Basquiat fu l’essere un artista profondamente legato non solo alle proprie macro radici etniche, ma anche a quelle più propriamente etnografiche. Bazzicare nell’intellettualmente chic Soho già da piccolo gli aveva fatto conoscere la musica (mise su anche un gruppo, i Gray, cui apparteneva anche l’attore indie Vincent Gallo) e la sua predilezione non poté che orientarsi verso la musica jazz, in particolare il bebop innovativo di Charlie Parker. Così in opere come in Five Fish Species sembra di star guardando una partitura musicale fatta quadro ove le classiche scale armoniche sono ripudiate in favore di scelte estetiche, stilistiche e cromatiche molto più sincopate.
La mostra ospitata al Chiostro del Bramante dedica anche uno spazio alla collaborazione avvenuta nel 1984 con il guru della pop art Andy Wahrol, figura a cui sin da ragazzo il piccolo Jean-Michel aveva guardato con ammirazione. Le critiche del tempo demolirono questa partnership liquidandola come mediocre e compiuta solo per ragioni di mercato. In effetti, l’energia rabbiosa di Basquiat in quest’occasione venne ammorbidita dal più istituzionalizzato mentore come si può vedere nell’opera Two Dogs dove prevale il concettualismo più afono che l’energia primordiale della denuncia più urlata.
Fosse vissuto più a lungo l’artista afroamericano come avrebbe vissuto la realizzazione di essere diventato quello che temeva sin dalla formidabile esplosione del suo successo, e cioè “una mascotte da galleria”? La vitalità dell’opera esposta qui a Roma lascia presupporre che avrebbe saputo superare anche il cinismo di rappresentanza di molti critici in nome di uno dei talenti più puri mai apparsi nell’ultimo cinquantennio.